domenica 25 dicembre 2016

La vera storia di Cappuccetto Rosso: quando l'uomo incontrò il lupo



Ad un certo punto della storia l'uomo incontrò il lupo per davvero. E questa amicizia millenaria è arrivata fino ad oggi. Ma cosa portò il lupo a diventare cane? E quali effetti ebbe questo incontro sull'evoluzione dell'uomo?





C'era una volta...

Come i fratelli Grimm abbiano potuto pensare, anche solo lontanamente, che Cappuccetto Rosso fosse una favola per bambini rappresenta per me un mistero.
Insomma: la nonna malata che vive da sola in un luogo non meglio identificato in un bosco, la mamma che inspiegabilmente invita la ragazzina ad attraversare da sola il suddetto bosco, l'intervento salvifico del cacciatore e il gran finale  splatter, degno di "Non aprite quella porta", a cui prendono parte pure la nonna e Cappuccetto Rosso. 

Considerando questi elementi al lettore non potrà di certo sfuggire che in questa vicenda il problema più grande non è di certo rappresentato dal lupo (quello vero intendo). Perché il lupo vero NON mangia la nonna e neppure Cappuccetto Rosso, NON porta via i bambini (nemmeno quando ha il manto nero) e tendenzialmente "svicola tutto a mancina" se sente l'odore dell'uomo. Tanto che incrociare la sua strada e poterlo osservare per pochi istanti è un evento raro e quantomai prezioso. 







I bracconieri invece esistono eccome e continuano a perseguitare impunemente il lupo che, dopo aver rischiato l'estinzione 40 anni fa a causa della pressione venatoria, è stato inserito dalla normativa italiana tra le "specie particolarmente protette". Vuol dire che a questi signori non dovrebbe venire in mente di torcergli neppure un pelo. 

Che il lettore tragga liberamente la propria personale morale, io la mia la trassi qualche anno fa (mi si consenta una licenza poetica). E, date le mie accese proteste, Cappuccetto Rosso non fu più annoverato tra i racconti da leggere prima della nanna. A questo punto mi sento di rivolgere un accorato appello a tutti i genitori che minacciano l'indisciplinata prole con lo spauracchio del famoso "lupo nero": per tenere a bada pargoli vivaci o metterli in guardia dai pericoli sono certa che potranno trovare esempi infinitamente più calzanti. 






Ma insomma perché tutte queste storie per una favola? Forse perché io il lupo ho avuto la fortuna di incontrarlo. Dopo aver incrociato per pochi istanti il suo sguardo, qualcosa di indefinito di lui è rimasto scolpito nel mio cuore, tanto che ancora oggi non mi abbandona. 

E poi perché un lupo, ad certo punto della storia umana, incontrò Cappuccetto Rosso (o qualcun altro per lei) per davvero e lì accadde un fatto senza precedenti, considerando che stiamo parlando di un grande carnivoro. Perché alcuni lupi si "fecero" cane, dando inizio a quello che, a mio umilissimo parere, rappresenta uno degli esempi più belli di coevoluzione nella storia della biologia. Semplicisticamente potremmo definire la coevoluzione come un processo evolutivo in cui due o più specie interagiscono fra loro tanto strettamente da influenzarsi, di modo che ciascuna si adatti all'altra. Un po come alcuni fiori che hanno adattato la propria forma agli insetti impollinatori, e viceversa. 


E' chiaro che, stanti così le cose, la storia di Cappuccetto Rosso potrebbe avere un finale completamente diverso. Insomma una favola con happy end incluso, degna del Natale. 
Consideratelo il mio personale regalo a tutti i lettori di Ecobriciole. 

Ringrazio di cuore il collega Stefano Spagnulo per essermi stato d'ispirazione per questo articolo, per la sua passione per la biologia, che condividiamo, e per avermi aiutata nella ricerca bibliografica. Chi vorrà approfondire troverà tutti i riferimenti in fondo all'articolo. 




Ma insomma come avvenne la "domesticazione" del lupo? Quando il lupo, da predatore che era, iniziò a camminare accanto all'uomo che, prima della domesticazione di qualsiasi altro animale o pianta, lo scelse a sua volta come compagno di viaggio? Non è una domanda da poco, visto che fare luce su questi aspetti svelerebbe molto della vita dell'uomo preistorico. Ebbene il mistero non è stato ancora del tutto risolto, in compenso molte teorie sono state avanzate. 












Resti di un uomo e di cane sepolti assieme
12.000  anni fa in Israele

Di certo i cani discendono dal lupo grigio con il quale condividono il 99,9% del DNA. E qui finiscono le certezze. 

Negli anni '70 gli scienziati portarono alla luce i resti di un cucciolo seppellito tra le braccia del suo compagno umano 12.000 anni fa in Israele: un simbolo di eterna amicizia. Per  questo si ipotizzò che la domesticazione avvenne nell'attuale Medio Oriente prima che il Neolitico avesse inizio. Il fatto è che scavi successivi portarono alla luce reperti databili anche 16.000 anni fa in Russia o Germania. Infine subentrarono le indagini genetiche che portarono ancora più indietro le lancette del tempo, collocando la domesticazione del lupo probabilmente a circa 30.000 anni fa (tanto per intenderci esisteva ancora l'uomo di Neanderthal, che si sarebbe estinto di li a poco). Significa che la linea evolutiva del cane odierno (Canis lupus familiaris) e quella del lupo grigio (Canis lupus lupus) potrebbero essersi separate poco meno di 30.000 anni fa.  



Eppure ancora oggi le origini temporali e geografiche del cane restano controverse. Taluni ritengono che il cane abbia avuto origine da processi di domesticazione avvenuti indipendentemente in più aree geografiche, mentre altri pensano che tale processo sia avvenuto in un unico luogo, ma non ci è dato sapere se si tratti di Europa, Asia Centrale o Estremo Oriente. 
Recenti analisi genetiche hanno portato a ipotizzare che due differenti popolazioni di lupi, oggi estinte, furono domesticate in Estremo Oriente e in Europa, prima che l'uomo divenisse un agricoltore stanziale. La popolazione domesticata in Oriente accompagnò le popolazioni dell'Est durante le migrazioni che le portarono a raggiungere l'Europa Occidentale circa 14.000 anni fa. Qui rimpiazzò parzialmente la popolazione indigena di cani paleolitici. 


Fu l'uomo a scegliere il lupo o il lupo che scelse l'uomo?


Nel 1907 lo scienziato britannico Francis Galton suggerì che i cani entrarono nelle nostre vite quando i nostri antenati introdussero negli accampamenti cuccioli di lupo e li allevarono. Tale ipotesi fu sostenuta da buona parte della comunità scientifica per molte decadi. Tuttavia tale processo di domesticazione avrebbe richiesto moltissimo tempo, centinaia probabilmente migliaia di anni. Un tenero lupacchiotto portato via dal branco di origine, una volta cresciuto, sarebbe comunque diventato un animale selvatico non per forza amichevole nei confronti dell'uomo. E allora cosa accadde? 



Ad oggi sono in molti a propendere per l'ipotesi dell'auto-domesticazione, ovvero fu il lupo ad avvicinarsi allo strano bipede senza pelliccia e così domesticò se stesso. Come gli venne in mente una cosa del genere? Insomma  uomini e lupi vivevano in conflitto, insieme preda e predatore l'uno dell'altro. Si erano dati la caccia a lungo e sicuramente competevano per le stesse prede. Il fatto che ad un certo punto abbiano scelto di unire le forze per aumentare le proprie possibilità di sopravvivenza è di certo un'ipotesi affascinante. E, a parere di alcuni studiosi, furono proprio alcuni esemplari di lupo, quelli meno aggressivi e diffidenti, ad avvicinarsi agli accampamenti umani. 






Furono probabilmente attratti dalle carcasse abbandonate dagli uomini subito fuori gli insediamenti. Questi lupi, nutrendosi dei resti lasciati dagli uomini, vissero più a lungo e diedero vita a molti cuccioli. Di generazione in generazione si avvicinarono sempre di più all'uomo fino a quando, possiamo immaginare, un esemplare più audace si avvicinò a tal punto da poter mangiare dalle sue mani. 
D'altronde gli uomini non vedevano in questi lupi alcun pericolo, non mostravano aggressività, pertanto lasciarono che vivessero nei pressi dei loro accampamenti. Realizzarono poi nel tempo che potevano trarre molti vantaggi dalla loro vicinanza. Non da ultimo il fatto che probabilmente questi branchi di lupi, pur non essendo ancora del tutto domesticati, difendevano l'accampamento da altri predatori pericolosi per l'uomo, inclusi altri canidi.  

Ebbe inizio, così, una seconda e più attiva fase della domesticazione che portò ad "allevare" e dunque selezionare quegli ancestrali canidi perché esprimessero sempre meglio quelle doti di cacciatori, pastori e guardiani che li rendevano così preziosi. Senza contare che questi cani continuarono ad incrociarsi coi lupi. L'incontro con il cane probabilmente permise all'uomo moderno di competere con i Neanderthal rendendo l'Homo sapiens una specie vincente.






L'amicizia con il cane ebbe probabilmente un impatto enorme sull'evoluzione umana. Ma per quale motivo molti umani stabiliscono un rapporto di amicizia e vicinanza con i cani? Secondo l'etologo Takefumi Kikusui quando uomo e cane si guardano negli occhi, entrambi sperimentano un innalzamento dei livelli di ossitocina, un ormone che possiede la capacità di regolare i comportamenti sociali e materni, favorendo lo sviluppo dell'istinto parentale e dunque del prendersi cura della prole. Lo stesso ormone viene prodotto quando la mamma e il bambino stanno assieme. 

La tendenza a rispondere con comportamenti parentali tutte le volte che si riconosce un cucciolo o un individuo che ne ha i caratteri è mossa dalla motivazione epimeletica. Essa viene espressa anche in altri mammiferi e uccelli. I motori che la accendono sono l'empatia e la tenerezza, essa pertanto è alla base di comportamenti altruistici non solo tra individui della stessa specie, ma anche tra individui appartenenti a specie diverse. Sono noti casi di adozione da parte di un predatore di cuccioli appartenenti a specie abitualmente predate. 


Probabilmente alla base della domesticazione ci fu molto di più del reciproco vantaggio nel soddisfacimento di bisogni alimentari e di protezione. Non si può infatti escludere l'ipotesi del maternaggio, ovvero di donne che hanno allattato, negli antichi insediamenti umani, cuccioli di lupo rimasti orfani per vari motivi. La motivazione epimeletica rappresenta infatti uno dei comportamenti più profondi e radicati e potrebbe essere stata parte integrante nel processo di domesticazione del lupo. Ancora oggi esistono popolazioni in cui viene comunemente praticato il maternaggio di cuccioli di altre specie, come nel caso della tribù di Awà-Guajà, una delle ultime popolazioni di cacciatori-raccoglitori in Brasile.

Alcuni ricercatori si sono spinti ancora oltre. Il biologo Greger Larson ha per esempio affermato:
"Più ne sappiamo riguardo al processo che portò i cani ad integrarsi nella società umana, più conoscenze acquisiamo sulle origini della civiltà". In sostanza senza la domesticazione del cane probabilmente non ci sarebbe stata la domesticazione di nessuna altra specie, ne tanto meno la civiltà come la conosciamo ora. 


Come gli umani addomesticarono i cani e i cani addomesticarono gli umani

Dunque uomo e cane si incontrarono, iniziarono a collaborare e infine fecero molto di più. Una delle teorie più affascinanti è quella secondo cui uomo e cane si sarebbero evoluti in parallelo, influenzandosi a vicenda. Sia per quanto concerne la genetica, sia per quello che riguarda i comportamenti sociali. 


L'amicizia con l'uomo generò non pochi cambiamenti nel mantello, nelle orecchie e nelle code dei lupi. Essi impararono peraltro a leggere prontamente i gesti umani, cosa in cui neppure altri primati, più vicini geneticamente all'uomo, riescono così bene. I cani moderni mostrano differenze significative rispetto ai lupi per i geni coinvolti in due ruoli chiave: lo sviluppo del cervello e il metabolismo. Questo spiegherebbe perché i cani adulti non mostrano aggressività verso l'uomo, mentre i lupi adulti sono elusivi. Inoltre i cani hanno evoluto meccanismi che gli consentono di digerire l'amido assenti nei lupi (no... questo non significa che potete dargli le lasagne). In altre parole i cani hanno vissuto con l'uomo lo sviluppo dell'agricoltura, evolvendo anche tramite questo evento epocale. 





E l'uomo? Molti autori parlano del ruolo giocato dai cani "nell'umanizzazione delle scimmie" o anche nella "lupizzazione dell'uomo". 


Konrad Lorenz scrisse: "Di tutte le creature la più vicina all'uomo nella finezza delle sue percezioni e nella sua capacità di dare vera amicizia è una femmina di cane".

Come affermò la stessa Jane Goodall, pioniera negli studi sugli scimpanzè, quando venne invitata a commentare l'osservazione di Lorenz: gli scimpanzè hanno spesso comportamenti individualisti. I cani discendono dai lupi, che invece sopravvivono collaborando. Essi cacciano insieme, condividono la tana e crescono i cuccioli insieme, nonostante solo alla coppia dominante sia consentito riprodursi. In sostanza sanno che insieme sono più forti. Gli uomini potrebbero aver appreso i vantaggi del vivere in gruppi più estesi e del cacciare in branco, differenziandosi in questo modo ad esempio dagli scimpanzè a loro geneticamente più vicini, dalla loro relazione con il cane?
Alcuni studiosi si spingono addirittura a ipotizzare che la capacità di stringere amicizia derivi da questo rapporto così forte.

Ciò che questa bella favola, realmente accaduta migliaia di anni fa, ci insegna è che non è il più forte o il più sanguinario ad affermarsi, come vorrebbero farci credere alcune interpretazioni aberranti dei concetti di evoluzione e selezione naturale. La selezione naturale, con i suoi tempi certamente, non ha mai premiato comportamenti individualistici o egoistici. Non è la più intelligente delle specie quella che sopravvive, non è nemmeno la più forte; la specie che sopravvive è quella che è in grado di adattarsi e di adeguarsi meglio ai cambiamenti dell'ambiente in cui si trova. Questa frase viene spesso erroneamente attribuita a Darwin, che mi piace considerare come il papà di tutti i biologi, anche se, pur semplificando parecchio, riassume bene alcuni concetti espressi in "L'origine delle specie".


Un finale diverso


"C'era una volta una bambina di nome Cappuccetto Rosso. Cappuccetto Rosso aveva una nonna che viveva in una casetta nel bel mezzo di un bosco, lontano dal villaggio. Il lettore si chiederà cosa ci facesse la nonna, che aveva i suoi acciacchi, da sola in mezzo al bosco. Non ci è dato saperlo, così è la storia. Fatto sta che Cappuccetto Rosso doveva fare molta strada per portarle ciò di cui aveva bisogno. Un giorno, carica di focacce e manicaretti di ogni tipo, percorreva tranquilla la sua strada, quando si accorse che un lupo, con fare discreto, la stava osservando nascosto tra i rami di un cespuglio. Il lupo - ma che bello che era? - non era poi così male come lo descrivevano in fondo! Così proseguì per la sua strada. Il lupo, dal canto suo, era indeciso se potersi fidare o meno di questo curioso animale senza pelliccia, d'altronde non sembrava pericoloso e, in questo caso, nemmeno armato. E poi che profumino veniva fuori dalla sua sacca! Meglio stare a vedere cosa poteva venirne fuori. E così il lupo, di natura guardingo e sfuggente, decise di seguire la bambina. D'altronde è risaputo: in ogni specie prima o poi nasce un individuo gagliardo che decide - beninteso, con le sue paure! - di vedere cosa c'è oltre le strade di consueto percorse. Così arrivarono assieme davanti alla casa della nonna. Cappuccetto Rosso si voltò incuriosita, insomma cosa voleva de lei questo lupo? Il lupo, nel frattempo, si era seduto e stava li a fissarla con aria interrogativa.

- Oh, lupo, che orecchi grandi hai! -
- Così da poterti avvisare di ogni pericolo e per accompagnarti nella caccia! Anche perché se aspettiamo te facciamo notte! -

- Oh, lupo, che occhi grandi che hai! -

- Ma sei di coccio? Non lo hai letto tutto il polpettone sulla motivazione epimeletica? -

- Oh, lupo, e che bocca grande che hai! -
-  Ah, quella è direttamente proporzionale alla quantità di cibo che mi vedrai letteralmente fagocitare per poi guardarti, dopo 3 minuti d'orologio, come se non mi nutrissi da giorni! Dai, poi un bacino ogni tanto te lo do lo stesso! -

Proprio in quel momento la nonna aprì la porta ed esclamò - Cappuccetto Rosso no! Va bene scoiattoli, lucertole, piccioni, rondini e tutta l'arca di Noè... ma pure lupi devi portare in casa? Ma insomma, non potevi studiare medicina o giurisprudenza, come tutte le tue amiche, invece di biologia? - 

Ma il lupo non era interessato a questo noioso questionare umano, pertanto entrò in casa e andò ad accucciarsi comodamente vicino al caminetto, che tentassero pure di farlo andare via! Poi con la nonna se la sarebbe vista Cappuccetto Rosso.

Il cacciatore, nel mentre, era comodamente disteso sul divano, quel giorno non aveva voglia di uscire. E nemmeno i cani, troppo freddo. Per cui decise di guardare le sue serie tv preferite per tutto il pomeriggio."

Morgana & Me
La favola che descrive l'incontro tra l'uomo e il lupo che si è fatto cane è una storia d'amore che dura da migliaia di anni. 

Antoine de Saint-Exupéry scriveva ne "Il Piccolo Principe":

"La volpe tacque e guardò a lungo il piccolo principe: «Per favore... addomesticami», disse. «Volentieri», rispose il piccolo principe, «ma non ho molto tempo, però. Ho da scoprire degli amici, e da conoscere molte cose». 
«Non si conoscono che le cose che si addomesticano», disse la volpe. «Gli uomini non hanno più tempo per conoscere nulla. Comprano dai mercanti le cose già fatte. Ma siccome non esistono mercanti di amici, gli uomini non hanno più amici. Se tu vuoi un amico addomesticami!»"

Buon Natale a tutti da Ecobriciole!





Bibliografia

Grimm D - Dawn of the dog - Science, 2015; 348(6232):274-9

Spagnulo S - Il Lupo e la Balia - I Nostri Cani (ENCI), 2011: 23-24

Wayne RK  and Ostrander EA - Lessons learned from the dog genome - TRENDS in Genetics, 2007; 23(11)

Skoglund P, Ersmark E, Palkopoulou E, Dalén L - Ancient Wolf Genome Reveals an Early Divergence of Domestic Dog Ancestors and Admixture into High-Latitude Breeds - Current Biology, 2015; 25: 1515–1519

Schleidt WM and Shalter MD - Co-evolution of Humans and Canids. An Alternative View of Dog Domestication: Homo Homini Lupus?- Evolution and Cognition, 2003; 9(1)

Guo-dong Wang et al - The genomics of selection in dogs and the parallel evolution between dogs and humans - Nature Communications, 2013

Freedman AH et al - Genome Sequencing Highlights the Dynamic Early History of Dogs - PLOS Genetics, 2014; 10(1)

McCormick, F -  Genomic and archaeological evidence suggest a dual origin of domestic dogs - Science, 2016; 352(6290)






giovedì 24 novembre 2016

Alimentazione nella donna: ciclo mestruale, appetito e dimagrimento


Le fluttuazioni ormonali che avvengono durante il ciclo mestruale influenzano l'appetito. Alcuni ricercatori dell'Università di Copenaghen hanno proposto un'alimentazione armonizzata con tali fluttuazioni e indagato sui suoi effetti sul dimagrimento. 



Lo si sapeva già da tempo. Noi donne intendo. E a dirla tutta lo dice anche la scienza, già da un po'. Le fluttuazioni ormonali che avvengono durante il ciclo mestruale influenzano l'appetito. Per cui se nei giorni che precedono le mestruazioni vi sentite attanagliate da una fame atavica - e di conseguenza la tavoletta di cioccolato nella dispensa non è più al sicuro - niente paura: esiste una spiegazione. Ma attenzione a non generalizzare! I meccanismi che regolano la ricerca del cibo e che possono portare ad eccessi sono molti. Su Ecobriciole se ne è parlato in questo articolo dedicato al dieting.

Il ciclo mestruale dura generalmente 28 giorni e può essere suddiviso in tre fasi:

  • Fase mestruale (primi 4 giorni del ciclo);
  • Fase follicolare che dura fino all'ovulazione (dal 5° al 15° giorno). Durante tale fase c'è un picco di estrogeni nel sangue, che precede l'ovulazione;
  • Fase luteinica (dal 16° al 28°). A metà di tale fase c'è un picco di progesterone nel sangue.





La stragrande maggioranza degli studi dedicati alla relazione tra abitudini alimentari e ciclo mestruale ha evidenziato che le donne tendono a mangiare di più nella fase luteinica, che precede le mestruazioni. Questa tendenza non è stata osservata in donne che fanno uso di contraccettivi orali o in presenza di cicli anovulatori. Nella maggior parte dei casi il momento dell'ovulazione rappresenta invece quello in cui la richiesta di cibo è minore.
E non è finita. Non è solo il comportamento alimentare a cambiare. Sembrerebbe che, dopo l'ovulazione, le richieste energetiche dell'organismo siano lievemente superiori. E allora un pezzetto di cioccolata fondente o del nostro dolce preferito, magari a merenda, non sono poi la fine del mondo!





Gli effetti delle fluttuazioni ormonali influenzano il comportamento alimentare.
Ma è vero anche il contrario. Ovvero un'alimentazione lontana dalle necessità fisiologiche dell'organismo può avere un impatto sugli ormoni e, in alcuni casi, contribuire alle irregolarità nel ciclo mestruale e all'infertilità.



Le donne possono incontrare maggiori difficoltà rispetto agli uomini quando intraprendono un programma di dimagrimento. Questo potrebbe essere dovuto alle variazioni che avvengono a carico del metabolismo basale e della regolazione dell'appetito: nelle donne la secrezione degli ormoni riproduttivi controlla il ciclo mestruale e influenza apporto energetico, spesa energetica e stoccaggio delle risorse, mentre il corpo si prepara ogni mese per una gravidanza.
Quali sono le ipotesi avanzate dai ricercatori?

Sono probabilmente gli estrogeni ad avere un ruolo nella riduzione dell'appetito e dunque dell'apporto energetico durante la fase follicolare. O, probabilmente, l'aumento dell'appetito nella fase che precede le mestruazioni dipende dall'effetto combinato della diminuzione dei livelli plasmatici di estrogeni e di aumento di quelli di progesterone. Il progesterone, infatti, promuove l'immagazzinamento dei grassi, inducendo un abbassamento della concentrazione plasmatica di trigliceridi e un probabile concomitante desiderio di cibi che ne sono ricchi. I cambiamenti nella regolazione dell'appetito, che si verificano durante il ciclo mestruale, potrebbero inoltre essere correlati all'omeostasi del glucosio o all'interazione tra ormoni sessuali e ormoni che partecipano ai complessi meccanismi di regolazione della fame e della sazietà (ad esempio grelina e leptina).



Ma c'è una novità! Alcuni studiosi dell'Unità di Ricerca in Nutrizione Clinica dell'Università di Copenaghen hanno recentemente tentato di sfruttare le conoscenze sulla fisiologia di ciascuna fase del ciclo mestruale e sulla loro relazione con la spesa energetica e il comportamento alimentare. Per lo studio, della durata di 6 mesi, sono state reclutate 60 donne in sovrappeso e in buono stato di salute. A 30 di esse è stata proposta la “Menstralean Diet” associata ad uno specifico programma di allenamento. I profili nutrizionali proposti sono stati pensati in modo che apporto energetico e composizione in macronutrienti fossero armonizzati con le 3 diverse fasi del ciclo mestruale e con le variazioni a carico delle preferenze alimentari e della spesa energetica. Nella fase luteinica (quella che precede le mestruazioni) è stata data maggiore rilevanza agli alimenti maggiormente ricchi di grassi di buona qualità e proteine, in quanto maggiormente sazianti. Al fine di soddisfare il desiderio di particolari cibi, ad esempio dei dolci, che spesso viene percepito prima delle mestruazioni, è stata suggerita anche della cioccolata fondente. Ma attenzione: nessun nutriente è stato escluso in nessun momento della sperimentazione. Si tratta solo di modulazioni nelle dosi e nelle frequenze di consumo dei vari alimenti.



Cosa è accaduto? Ebbene i risultati sono davvero incoraggianti!

Le donne che hanno aderito per l'intero periodo di sperimentazione alla Menstralean Diet hanno beneficiato di un calo ponderale quasi doppio rispetto alle 30 donne cui è stata proposta una dieta ipocalorica bilanciata (secondo le linee guida nazionali danesi).

In conclusione, questo rappresenta il primo trial clinico che esamina gli effetti di una periodizzazione dell'alimentazione e dell'allenamento sulla base delle oscillazioni ormonali che avvengono durante il ciclo mestruale. Per quanto preliminare e probabilmente non di semplicissima attuazione nella vita di ogni giorno, la proposta è suggestiva. Se confermata da ulteriori studi "la periodizzazione" dell'alimentazione potrebbe risultare un ulteriore strumento di aiuto per le donne. 





Bibliografia:


  • NRW Geiker, C Ritz, SD Pedersen, TM Larsen, JO Hill and A Astrup - A weight-loss program adapted to the menstrual cycle increases weight loss in healthy, overweight, premenopausal women: a 6-mo randomized controlled trial - Am J Clin Nutr, 2016; 104(1):15-20 
  • L Davidsen, B Vistisen and A Astrup - Impact of the menstrual cycle on determinants of energy balance: a putative role in weight loss attempts - International Journal of Obesity , 2007; 31: 1777–1785
  • L Dye and JE Blundell - Menstrual cycle and appetite control: implications for weight regulation - Human Reproduction, 1997; 12 (6): 1142–1151




domenica 13 novembre 2016

Pillole di Nutraceutica: il golden milk e la curcuma. Una spezia alla ribalta







Golden cosa? Latte! O meglio latte dorato. Si tratta di una bevanda a base di latte (vaccino o vegetale) e curcuma, spezia cara a quanti praticano yoga e utilizzata dalla medicina ayurvedica.

Il web pullula di contenuti che attribuiscono alla curcuma molteplici proprietà salutistiche.
Quanto c'è di vero? O meglio cosa è possibile affermare basandosi sugli studi scientifici attualmente pubblicati?






By H. Zell (Own work)



La curcuma, alias Curcuma longa, pianta appartenente alla famiglia delle Zingiberacee e originaria dell'Asia sud-orientale, viene impiegata come spezia soprattutto nella cucina indiana, mediorientale e di altre aree dell'Asia. La spezia si ricava dal rizoma della pianta, un fusto modificato sotterraneo con funzioni di riserva energetica e dalla caratteristica colorazione giallo-arancio, che viene cotto, essiccato e successivamente macinato. Da buon organo di riserva il rizoma è ricco di amido, ma anche di altri macro e micro nutrienti, caratteristiche tuttavia irrilevanti viste le modiche dosi di utilizzo di una spezia. La curcuma deve piuttosto le attuali luci della ribalta al suo contenuto di un composto polifenolico: la curcumina.



Questa molecola agisce su numerosi bersagli molecolari e vie di trasduzione del segnale nelle cellule. Possiede attività antiossidante, antinfiammatoria, antiaterosclerotica, antiaging, antimicrobica, modulatrice del metabolismo degli zuccheri, chemopreventiva e in alcuni casi chemosensibilizzante. Il fatto è che tutti gli studi preclinici e clinici sono stati condotti sulla molecola, la curcumina, e non sulla curcuma utilizzata come alimento. E questa, come vedremo, rappresenta una differenza sostanziale.







La curcuma (che è presente anche nel curry) può essere utilizzata in cucina per insaporire ad esempio piatti a base di pesce, verdura o legumi. 
E se invece volessimo utilizzarla a colazione o per un gradevole e caldo spuntino? In tal caso avremmo decisamente bisogno della ricetta del latte dorato!







Lo chef Michele Leo, che il lettori hanno già conosciuto in questo articolo, ha messo ancora una volta la sua cucina a disposizione di Ecobriciole.  E così, mentre preparavamo alcune sorprese di cui vi parlerò a breve, ci siamo concessi una pausa con il golden milk.  Vi lascio solo un indizio: presto entreremo nelle vostre cucine con moltissime idee pensate per voi e per i vostri amici a quattro zampe. Per cui - come sempre - restate connessi!







Cosa ci occorre?

Per preparare la pasta di curcuma:
acqua circa 120 ml
curcuma 60 g

Per preparare una tazza di golden milk:
latte di cocco 1 tazza (o latte di mandorle, di riso o vaccino)
1 cucchiaino di pasta di curcuma
1 cucchiaino di olio extravergine di oliva
1 cucchiaino di miele
1/2 cucchiaino di cannella
1 pizzico di pepe nero macinato







Prima di tutto è necessario preparare la pasta di curcuma. E' sufficiente mescolare acqua e curcuma con l'aiuto di una frusta  e scaldare il composto a fuoco basso per pochi minuti (3 o poco più). Bisognerà continuare a mescolare fino al raggiungimento della giusta consistenza (deve essere piuttosto denso). La pasta di curcuma, posta in un barattolino di vetro, potrà essere conservata in frigorifero per circa 2 o 3 settimane.













A questo punto siamo pronti per preparare il latte e... per imbatterci nei primi problemi. Ebbene si, l'utilità della curcumina è fortemente ostacolata dal fatto di non essere solubile in acqua e dalla bassa biodisponibilità. Quest'ultima può essere aumentata attraverso l'aggiunta di grassi, nel nostro caso quelli contenuti nell'olio extravergine di oliva e nel latte di cocco.









E come la mettiamo con i grassi saturi presenti nel latte di cocco? La maggior parte dei grassi contenuti nella polpa della noce di cocco è costituita da acidi grassi saturi a catena media (i grassi vengono distinti anche sulla base della lunghezza della molecola). Tale tipologia di grassi saturi è unica in quanto queste molecole sono facilmente digerite, assorbite e successivamente metabolizzate dal fegato, possono inoltre essere convertite in chetoni. I corpi chetonici sono un'importante fonte di energia alternativa per il cervello e possono, secondo alcuni studi, essere utili in presenza di deficit della memoria, come nella malattia di Alzheimer. Ad oggi il ruolo giocato dagli acidi grassi a catena media nelle dislipidemie, nell'aterosclerosi e dunque nella salute cardiovascolare è controverso. Il latte di cocco, probabilmente anche grazie al suo contenuto di fibra, arginina e polifenoli, sembrerebbe avere un effetto positivo sul metabolismo del glucosio ed è stato associato con la diminuzione del colesterolo LDL e l'aumento del colesterolo HDL. Per confermare tali osservazioni saranno tuttavia necessari ulteriori studi.









Per poter preparare il golden milk è necessario mescolare il latte di cocco con un cucchiaino di pasta di curcuma e lasciare intiepidire il composto a fuoco basso (intiepidire eh... non bollire!). Il latte di cocco assumerà un colore brillante e caldo.














Si aggiungono poi un cucchiaino di olio extravergine di oliva, mezzo cucchiaino di cannella in polvere e un cucchiaino di miele (nel nostro caso gentilmente prodotto dalle amatissime api della mia amica Roberta).














La cannella può contribuire ad abbassare i livelli di glucosio, colesterolo e trigliceridi nel sangue. Tali effetti sono probabilmente da attribuirsi all'azione della cinnamaldeide, ma si indaga anche su altri composti bioattivi come eugenolo, catechine e epicatechine. Il contenuto di cumarina (presente nella maggior parte delle varietà di cannella) può tuttavia interferire con i farmaci anticoagulanti. Questa spezia possiede inoltre proprietà antimicrobiche e antinfiammatorie, agendo pertanto in maniera sinergica con la curcuma.











E infine l'ultimo tocco... prima di spegnere il fornello una spolverata di pepe nero macinato. La piperina contenuta nel pepe nero aumenta di circa il 2000 % la biodisponibilità della curcumina.




Il golden milk è pronto! Lo abbiamo provato per voi ed il sapore è stato davvero una gradevole sorpresa.

Sono numerosissimi gli studi effettuati sulle molteplici proprietà preventive e terapeutiche della curcumina, che viene pertanto definita da alcuni come un principio attivo polivalente. La curcumina possiede attività antiossidante ed è inoltre in grado di modulare la trascrizione e l'attività di numerose molecole coinvolte nelle vie di trasmissione del segnale cellulare.



Attività antinfiammatoria. Lo stress ossidativo, ovvero la condizione in cui la produzione di radicali liberi supera le possibilità di neutralizzazione da parte dei sistemi antiossidanti endogeni, caratterizza il processo di invecchiamento ed è correlato con uno stato di infiammazione cronica riscontrato in numerose patologie (ed esempio quelle cardiovascolari, malattie infiammatorie intestinali, obesità, artrite). In sostanza i radicali liberi modulano l'espressione di fattori che giocano un ruolo centrale nella risposta infiammatoria.
La curcumina è in grado di agire direttamente sui radicali liberi e parallelamente potenzia l'attività degli enzimi antiossidanti prodotti dall'organismo. E' inoltre in grado di modulare i processi infiammatori coinvolti nello sviluppo di malattie croniche, agendo sulle vie di amplificazione della risposta infiammatoria (ad esempio inibendo citochine proinfiammatorie ed enzimi infiammatori come le ciclossigenasi 2).

Obesità e disturbi metabolici.  L'azione antiossidante e immunomodulatoria della curcuma sembrerebbe avere effetti positivi sullo stress ossidativo caratteristico dell'obesità. Inoltre alcuni studi clinici hanno mostrato un miglioramento nella funzione endoteliale e nei livelli di glucosio, colesterolo LDL e trigliceridi nel sangue.

Attività antitumorale.  Studi preclinici (in vitro e su modelli animali) hanno mostrato come la curcumina promuova la morte delle cellule tumorali per un effetto pro-apoptotico, inibisca la formazione di nuovi vasi sanguigni necessari ad alimentarle e la trasformazione delle cellule sane in cellule tumorali. I trials clinici condotti (ovvero studi clinici condotti su uomo), per quanto ancora preliminari, hanno sostanzialmente confermato tali attività.

Malattie neurodegenerative.  Molti studi hanno dimostrato la stretta correlazione tra patologie neurodegenerative come l'Alzheimer e l'aumento del danno ossidativo delle cellule. La curcumina, grazie alle proprietà antiossidante e antinfiammatoria, ha mostrato di avere proprietà neuroprotettive.


Qualche riflessione

Le premesse sono davvero promettenti. Parlo di premesse perché, nonostante le numerose evidenze in vitro e in vivo e nonostante studi clinici (spesso in fase iniziale) suggeriscano che la curcumina possa essere utilizzata nella prevenzione e trattamento di molte patologie, sono ancora necessarie ulteriori ricerche.
Questo principio attivo non è stato ancora approvato come farmaco: le maggiori limitazioni al suo impiego risiedono nella biodisponibilità molto bassa e nel rapido metabolismo.

Inoltre la stragrande maggioranza degli studi è incentrata sulla somministrazione del principio attivo (la curcumina), attraverso estratti o comunque formulazioni, e non sull'uso della spezia nella normale alimentazione. La differenza è sostanziale: si parla di dosaggi che vanno dai 500 mg agli 8 g.

Quantità inimmaginabili se pensiamo alla curcumina che è possibile ottenere da un normale consumo della spezia in cucina. Il contenuto di curcumina nella curcuma è mediamente del 3 % (vuol dire che in 2 g di spezia sono contenuti all'incirca 60 mg di curcumina).

In generale, il consumo di curcumina è considerato sicuro fino a dosi di 8 g al giorno. Può tuttavia interagire con farmaci anticoagulanti o con alcuni chemioterapici (in alcuni casi inibendone ed in altri potenziandone l'azione). E' dunque buona norma consultarsi col medico. Va inoltre posta attenzione in caso di litiasi biliare.

Sia lo JECFA (il comitato misto FAO/OMS di esperti sugli additivi alimentari) sia l'EFSA (Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare) hanno stabilito un ADI (ossia una dose giornaliera accettabile) di 3 mg/kg/giorno (180 mg per una donna di 60 kg e 210 mg per un uomo di 70 kg). Dose difficilmente raggiunta dalla media dei consumatori. La dose giornaliera accettabile è la stima della quantità di un additivo alimentare, riferita al peso corporeo, che può essere ingerita giornalmente per tutta la vita senza rischi significativi per la salute. La curcumina è infatti utilizzata come colorante dall'industria alimentare e la sua sigla è E100.

By Simon A. Eugster (Own work)

Dunque la cautela è d'obbligo. L'uso della spezia in cucina è certamente interessante per via dei suoi potenziali effetti preventivi. Non va però intesa, come spesso ho avuto occasione di osservare, come una panacea contro tutti i mali o come una sostanza miracolosa.

E soprattutto non vie è curcuma che tenga se non è l'alimentazione nel suo complesso ad avere un effetto preventivo. E' infatti l'azione sinergica di tutte le molecole attive, presenti in un'alimentazione adeguata, ad avere un reale effetto positivo sul benessere umano.

Stanti così le cose vale comunque la pena utilizzare la curcuma in cucina?

Alcuni studiosi dello IEO (Istituto Europeo di Oncologia) l'hanno inclusa tra i Longevity Smartfood, ipotizzando che alcune sostanze bioattive in essa contenute possano influenzare le vie genetiche della longevità nello stesso modo in cui agisce la restrizione calorica, attraverso l'attivazione dei geni in grado di aumentare la sopravvivenza delle cellule. Le molecole mimetiche del digiuno, tra le quali è stata inclusa anche la curcumina, ingannano il DNA, dando il via a un cascata di eventi molecolari che inibiscono Tor, un gene che se attivo fa crescere e proliferare le cellule.

Come concludono i ricercatori, in attesa che questa ipotesi venga speriamo confermata, vale certamente la pena non far mancare la curcuma dalla nostra tavola. Mal che vada godremmo comunque dei suoi molteplici aspetti benefici sulla salute!




        Bibliografia

  • BB Aggarwal - Targeting Inflammation-Induced Obesity and Metabolic Diseases by Curcumin and Other Nutraceuticals -  Annu Rev Nutr, 2010; 30: 173-199
  • RF Tayemm, DD Heath, WK Al-Delaimy, CL Rock - Curcumin content of turmeric and curry powders - Nutr Cancer, 2006; 55(2):126-31
  • Jie Zheng, Yue Zhou, Ya Li, Dong-Ping Xu , Sha Li  and Hua-Bin Li - Spices for Prevention and Treatment of Cancers - Nutrients, 2016; 8:495 
  • WMADB Fernando, IJ Martins, KG Goozee, CS Brennan, V Jayasena and RN Martins - The role of dietary coconut for the prevention and treatment of Alzheimer’s disease: potential mechanisms of action - British Journal of Nutrition, 2015; 114: 1–14
  • AB Kunnumakkara, D Bordoloi, G Padmavathi, J Monisha, NK Roy, S Prasad and BB Aggarwal - Curcumin, the golden nutraceutical: multitargeting for multiple chronic diseases - British Journal of Pharmacology, august 2016
  • R Kotecha, A Takami and JL Espinoza - Dietary phytochemicals and cancer chemoprevention: a review of the clinical evidence - Oncotarget, 2016; 7(32): 517-529
  • A Niedzwiecki, MW Roomi, T Kalinovsky and M Rath - Anticancer Efficacy of Polyphenols and Their Combinations - Nutrients, 2016; 8:552
  • AB Medagama - The glycaemic outcomes of Cinnamon, a review of the experimental evidence and clinical trials - Nutrition Journal, 2015; 14:108
  • Xinyan Bi, Joseph Lim, Christiani Jeyakumar Henry - Spices in the management of diabetes mellitus - Food Chemistry, 2017; 217: 281–293
  • Liotta E, Pelicci PG, Titta L - La dieta smart food - Rizzoli ed, 2016
  • EFSA Panel on Food Additives and Nutrients Sources added to Food (ANS) - Scientific Opinion on the re-evaluation of curcumin (E100) as food additive - EFSA Journal, 2010; 8(9)

domenica 18 settembre 2016

L'impasto che scotta: sai perché la pizza fa venire sete?


Capita, dopo aver mangiato la pizza, di avvertire una forte sete. Le possibili cause vanno ricercate tra gli ingredienti e le fasi di lavorazione di uno dei piatti nazionali per eccellenza.




Foto di Luciano Furia
Ovvero, come diceva Edoardo De Filippo - Adda passà 'a nuttata!-
Capita che, dopo una serata in pizzeria con gli amici, la nottata passi in compagnia della brocca d'acqua, alla ricerca di un sollievo che tuttavia è passeggero. Perché dopo dieci minuti si è punto e a capo a fare i conti con la sete e talvolta con qualche problema digestivo. 


E' una domanda che ricorre spesso. Dove risiede la causa di questi disagi? Nella lievitazione, nella qualità degli ingredienti o nel contenuto di sale?


Per fare chiarezza sulla sentita questione è opportuno comprendere come nasce quello che potrebbe sembrare un semplice impasto di farina, lievito, acqua e sale. Ma non descrivetelo così... almeno non in presenza di Michele Leo, napoletano doc e maestro pizzaiolo con un passato da allievo di Gabriele Bonci e da docente nella scuola di Gambero Rosso, che ha gentilmente accettato di aiutare Ecobriciole a fare luce sui molti quesiti che, è il caso di dirlo, bollivano in pentola.  


By هارون يحيى (Own work)
Ecobriciole. Michele Leo, mi ha detto che preferisce non essere chiamato maestro. D'accordo. Ma qualche domanda indiscreta gliela faccio comunque.  A partire dall'argomento che al momento mi sembra più caldo: la farina. Di grano tenero di tipo 00, 0, 1, 2 o integrale. O di cereali altri dal frumento, come ad esempio il farro. Macinata a pietra o a cilindri. Parliamo di prodotti diversi sia da un punto di vista tecnico sia nutrizionale. Quale farina si presta meglio alla preparazione della pizza?

Michele Leo.  Tutto dipende dal prodotto che vogliamo preparare. Per la pizza napoletana vengono utilizzate esclusivamente la farina di grano tenero di tipo 0 o 00 (sulla base del disciplinare della Pizza Napoletana STG - specialità tradizionale garantita). In tutti gli altri casi, invece, possono essere utilizzate anche farina di grano tenero di tipo 1, 2 o integrale o farine ottenute da cereali diversi dal frumento, come il farro. Nella scelta della farina occorre tener conto soprattutto dell'indice W, che indica la forza della farina, ovvero la sua capacità di assorbire acqua, trattenere anidride carbonica durante la lievitazione e la capacità di espansione al rigonfiamento dell'impasto. La forza di una farina è correlata al contenuto di alcune proteine che, durante l'impastamento, danno origine al glutine. Maggiore è la forza della farina, più è alto il contenuto di glutenina e gliadina che, a contatto con l'acqua, si uniranno a formare il glutine, una sostanza che garantisce all'impasto elasticità e coesione. Quando un prodotto richiede lievitazioni lunghe, ed è il caso della pizza, è opportuno utilizzare farine con W elevato dette "farine di forza". Una farina adatta all'impasto della pizza deve avere un contenuto proteico tra il 10 e il 15% e un indice W tra 240 e 300. Maggiore sarà il contenuto proteico, maggiore l'assorbimento di acqua e dunque l'elasticità.




Foto di Michele Leo
Ecobriciole. Il lettore è avvisato. Se l'impasto batte in ritirata come un paguro, anziché stendersi sulla teglia, la colpa non è del fato avverso. Però questo vale per le farine professionali. Cosa ci consiglia di fare a casa?

Michele Leo. E' vero. I valori dell'indice W di una farina sono disponibili nei prodotti professionali, in genere ottenuti miscelando differenti varietà di grano tenero, ma non sulle confezioni ad uso casalingo. Pertanto in tal caso bisognerà far riferimento al contenuto di proteine. Queste farine, in genere deboli, possono essere miscelate con la farina Manitoba, dall'omonima regione del Canada, che possiede un elevato contenuto proteico. 





Ecobriciole. In molti ritengono che una pizza scarsamente digeribile sia stata realizzata con dosi eccessive di lievito. Quanto lievito è necessario aggiungere all'impasto? Per una buona riuscita è preferibile il lievito naturale o il lievito di birra?


Foto di Michele Leo
Michele Leo. Nella preparazione della pizza possiamo utilizzare sia lievito naturale sia lievito di birra fresco o secco. Senza contare che esistono 3 diverse tecniche di impasto. Naturalmente otterremo prodotti con caratteristiche differenti. Ad esempio con il lievito madre si ottiene una fermentazione differente e un prodotto digeribile, con profumo caratteristico e che si conserva più a lungo. A mio parere è ottima nella preparazione del pane, ma non è detto che sia la scelta migliore per tutti i tipi di impasto. Ad esempio rispetto ad una pizza realizzata con lievito di birra, l'impasto lievitato con lievito naturale presenta un'alveolatura meno ampia, in poche parole la pizza tende ad essere più compatta. Per la pizza napoletana si utilizza lievito di birra perché è necessario che essa sia sottile e che il cornicione sia alveolato. In ogni caso è necessario che i tempi di lievitazione siano lunghi, tanto più lunghi quanto maggiore è la forza della farina. Può capitare che una pizza risulti poco digeribile quando si utilizzano dosi casalinghe di lievito di birra (25 g su 1 kg di farina) con farine ad alto contenuto proteico: il tentativo di abbreviare i tempi di lievitazione non garantisce infatti una perfetta maturazione dell'impasto. A casa basterebbe usare 4 g di lievito di birra. In questo caso è però necessario allungare i tempi di lievitazione: 3 o 4 ore sono decisamente poche!



Foto di Michele Leo
Ecobriciole.  Lo sa che se dice così demotiva i lettori? Insomma la pizza in genere si pensa al mattino e si mangia alla sera! Mi dice che non si tratta di sola lievitazione... ma allora di quanto tempo hanno bisogno i nostri lettori per preparare una pizza?

Michele Leo.  No, non si tratta di sola lievitazione! L'altro elemento è la maturazione dell'impasto. Capita infatti che la lievitazione venga interrotta quando la maturazione dell'impasto, che è più lenta, non è ancora terminata. In questo caso il prodotto è meno digeribile. Il lievito di birra (Saccharomyces cerevisiae), nutrendosi degli zuccheri derivati dall'amido, produce anidride carbonica e alcol etilico. L'anidride carbonica causa l'espansione della maglia glutinica, facendo crescere l'impasto. Parallelamente alcuni enzimi (amilasi e proteasi), naturalmente presenti nella farina e attivati dall'acqua, attaccheranno gli amidi e il glutine. Questo processo è chiamato maturazione dell'impasto. L'impasto continuerà ad aumentare di volume fino a quando i lieviti troveranno zuccheri di cui nutrirsi e la maglia glutinica continuerà a gonfiarsi fino a quando non verrà distrutta dagli enzimi proteolitici, che rompono il glutine. Ma con il passare delle ore esso diventerà acido e non più lavorabile. Il consiglio è quello di far lievitare l'impasto per non meno di 24 h e fino alle 48 h.  Personalmente scelgo, in alcuni casi, di prolungare la lievitazione fino alle 72 h, ma non tutti sono concordi nel superare le 48 h.  Bisogna inoltre tener conto della temperatura. Il lievito è attivo ad una temperatura compresa fra i 4 e i 25/26 °C: garantire questo intervallo di temperature è essenziale affinché la maturazione dell'impasto possa avvenire durante la lievitazione.




Ecobriciole.  Ascoltando le sue parole, non posso fare a meno di pensare alla Piramide della Dieta Mediterranea. Alla base delle piramidi più recenti non ci sono alimenti, ma attività che hanno sempre fatto parte dello stile di vita dei nostri antenati. Ovvero il tempo dedicato alla preparazione dei pasti e la convivialità. Ma torniamo a noi. Cosa mi dice del sale? Un numero sempre maggiore di consumatori pone attenzione a questo ingrediente e ci sono progetti volti a ridurre il suo contenuto, ad esempio nel pane. E' possibile preparare una buona pizza con un occhio di riguardo al contenuto di sale?

Michele Leo. Il sale serve, naturalmente, a dare sapidità all'impasto. Ma non solo. Contribuisce a mantenere la temperatura, che si innalzerebbe durante la fase di impastamento, al di sotto dei 26 ° C. Quando la temperatura dell'impasto sale al di sopra di questo valore, la lievitazione non avviene in maniera ottimale. Senza contare che si romperebbero le maglie formate dal glutine, necessarie a intrappolare l'anidride carbonica. Il sale inoltre conferisce elasticità, che è una caratteristica fondamentale nella successiva lavorazione della pizza. Ma esistono molte variabili su cui è possibile giocare per contenere il suo utilizzo. Scegliere la farina giusta, ad esempio.  


Ecobriciole.  Questo mi sembra un aspetto davvero interessante. La cucina è anche un laboratorio: attraverso la ricerca nella tecnica gastronomica è possibile migliorare sempre di più anche gli aspetti nutrizionali degli alimenti. Visto che ci siamo, ne approfitto e le rubo ancora qualche minuto. Lei ci chiede un grosso impegno e  non vorrei che i lettori si trovino in difficoltà proprio al momento di infornare.  Può darci qualche consiglio per cuocere nel modo corretto la pizza?


Foto di Michele Leo
Michele Leo.  Io partirei dalla stesura. La preparazione della pizza necessita infatti di tre fasi: impasto, lavorazione (stesura) e cottura. La stesura serve a movimentare in maniera omogenea i gas nell'impasto e si effettua in maniera differente per la pizza napoletana e per quella in teglia. Inoltre la pizza napoletana va cotta nel forno a legna che, come sappiamo, raggiunge temperature molto elevate. Per questo deve essere stesa usando pochissima farina, altrimenti brucerebbe.

Ecobriciole. E si formerebbero gli idrocarburi policiclici aromatici (IPA), composti considerati critici dall'EFSA (Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare), perché collegati all'aumento del rischio di tumori. E' dunque importante che il cornicione non sia bruciato. E' possibile per il consumatore riconoscere una pizza lavorata nei tempi ottimali e cotta nel modo giusto?

Michele Leo. Una buona pizza la si riconosce, dopo la cottura, anche dal cornicione, che deve essere dorato e non troppo chiaro. Questo può avvenire solo se la maturazione è avvenuta correttamente, perché lo zucchero, che si è formato grazie all'azione degli enzimi della farina, caramellizza

Ecobriciole. Insomma la chimica entra in cucina! Il profumo e l'aspetto della pizza sono opera della caramellizzazione degli zuccheri, ma anche della reazione di Maillard, la più importante reazione chimica in cucina. Si tratta di una serie di fenomeni che avvengono a seguito dell'interazione tra gli aminoacidi delle proteine e gli zuccheri, che permettono l'imbrunimento e conferiscono la tipica fragranza della crosta di pane. Tempo e temperatura sono fondamentali per questa reazione. E se la pizza viene stesa in teglia?





Foto di Michele Leo
Michele Leo. La pizza in teglia va cotta mediamente per 20 minuti, regolando la temperatura del forno tra i 250 e i 300 °C. La cottura è un passaggio cruciale perché fa si che tutti gli sforzi fatti ci permettano di ottenere il risultato sperato. Consiglio di iniziare la cottura nel binario più basso del forno e di girare la teglia durante la cottura. In questo modo la teglia si riscalderà prima, permettendo alla pizza di gonfiarsi e di diventare più soffice. Nei forni professionali esistono procedure diverse. La teglia potrà essere spostata nel binario più alto del forno per gli ultimi 5 minuti di cottura, naturalmente dopo aver aggiunto la mozzarella. 












Un sentito ringraziamento a Michele Leo per la gentilezza e la disponibilità nel condividere il suo prezioso sapere. La sottoscritta, dal canto suo, si è ampiamente divertita a indossare i panni della reporter per un pomeriggio. Quasi quasi ci prende gusto.

A questo punto una cosa è chiara: la pizza è qualcosa di vivo. A partire dai lieviti utilizzati, microrganismi che rendono un grande servigio.



I, ElinorD [GFDL (http://www.gnu.org/copyleft/fdl.html)


Nel caso del lievito di birra siamo al cospetto di Saccharomyces cerevisiae, fungo unicellulare "addomesticato" migliaia di anni fa per la produzione di vino, pane e birra. Creatura versatile, se la cava sia in presenza sia in assenza di ossigeno. In presenza di ossigeno, quando viene aggiunto all'impasto, trasforma gli zuccheri presenti nella farina in acqua e anidride carbonica. Successivamente, in assenza di ossigeno, realizza il processo di fermentazione, ovvero converte il glucosio in anidride carbonica e alcol etilico. E da tutte queste reazioni guadagna energia (con una resa maggiore in presenza di ossigeno). Perché l'impasto lieviti e si gonfi sono fondamentali l'amido, parzialmente solubilizzato durante le procedure di impastamento, e il glutine, che forma una rete nelle cui maglie resta intrappolata l'anidride carbonica. Naturalmente la presenza di glutine rende questo alimento non adatto in caso di celiachia.







Quando si tratta di lievito naturale la faccenda si fa più complessa. Al suo interno infatti si trovano, oltre ai lieviti del genere Saccharomyces, anche batteri lattici.
I batteri lattici effettuano la fermentazione lattica, che è diversa dalla fermentazione alcolica di Saccharomyces cereviasiae. I prodotti di tale metabolismo sono infatti acido lattico, acido acetico, acqua, anidride carbonica e alcol etilico. La microflora del lievito madre non è mai la stessa e la sua composizione dipende dai microrganismi presenti nei cereali, nell'acqua e nell'ambiente. L'utilizzo del lievito naturale conferisce sapore e aroma caratteristici, maggiore durata e digeribilità dei prodotti a causa di una più alta produzione di peptidi e aminoacidi liberi. La presenza di batteri lattici e il lungo tempo di lievitazione permettono, inoltre, l'abbattimento dei fitati (ad opera delle fitasi batteriche), fattori antinutrizionali che chelano minerali come il calcio e il ferro, diminuendone la biodisponibilità soprattutto nei prodotti integrali. L'acido lattico e l'acido acetico possiedono attività antimicrobiche e sono molecole generalmente prodotte dai ceppi probiotici. L'acido acetico, in particolare, contribuisce al benessere delle cellule che costituiscono la parete intestinale.

Mentre i microrganismi sono alacremente impegnati nella fermentazione, gli enzimi presenti nella farina (amilasi e proteasi) vengono attivati dall'acqua e scindono l'amido e il glutine. Questo processo è essenziale perché la pizza sia digeribile. Ma attenzione: la maturazione è un processo molto più lento della lievitazione, soprattutto quando vengono utilizzate farine di forza. E' necessario dunque rallentare la lievitazione, conservando l'impasto in frigorifero sopra i 4°C tra le 24 e le 48/72 h.

La pizza può risultare poco digeribile e far venire sete quando:
  • vengono aggiunte massicce dosi di enzimi (oltre a quelli naturalmente presenti nella farina) per velocizzare i tempi di lavorazione;
  • vengono aggiunte elevate quantità di lievito nel tentativo di abbreviare i tempi di lievitazione (non garantendo in questo modo il tempo necessario per una perfetta maturazione);
  • la maturazione e la cottura non avvengono nel modo corretto.

La parziale degradazione della rete glutinica, che avviene durante la maturazione, espone maggiormente i granuli di amido in essa contenuti all'attività delle amilasi (gli enzimi deputati alla demolizione dell'amido). Se la pizza viene stesa e infornata prima che la maturazione sia avvenuta il lavoro per l'apparato digerente è maggiore: l'organismo umano richiede l'acqua necessaria alle reazioni enzimatiche che scindono l'amido. E la nottataccia ha inizio...

Volutamente non sono stati trattati in questa sede gli aspetti legati alla qualità delle farine e alle proprietà nutraceutiche della pizza. Tale è, a parere della scrivente, la loro complessità da meritare un futuro spazio tutto loro.

Allora, siete pronti a mettere le mani in pasta?



Bibliografia:
  • Cappelli P, Vannucchi V - Chimica degli alimenti - Zanichelli editore, 2005
  • This H - Pentole & Provette -  Gambero Rosso Edizioni, 2003
  • Fuso Silvano - Chimica quotidiana - Carrocci editore, 2014
  • Barham P - La scienza in cucina - Bollati Boringhieri ed, 2007
  • Smith F, Pan X, Bellido V, Toole GA, Gates FK, Wickham MSJ, Shewry PR, Bakalis S, Padfield P, MillsENC - Digestibility of gluten proteins is reduced by baking and enhanced by starch digestion - Mol Nutr Food Res, 2015; 59, 2034-2043